Satya Forte | I fiori non si tagliano con l’acqua
Opening 5 Ottobre
Dalle 11 alle 16
Ci sono delle opere che hanno una certa luce interiore che anche a luci spente riverbera, forte e chiara.
Un paio d’anni fa chi scrive si è imbattuta in una di queste.
Era posizionata in una stanza un pò male in arnese, in una mostra di cui in tutta franchezza non é dato di ricordare il contenuto.
Giunti davanti a quest’opera, non si poteva però far altro che constatare la grande energia che emanava, assieme al nome del tutto sconosciuto della mano che l’aveva realizzata.
A distanza di due anni da quell’incontro, la galleria Monitor è lieta di annunciare la prima personale di Satya Forte (Atri, 2000) I fiori non si tagliano con l’acqua negli spazi di Palazzo Maccafani, Pereto.
La ricerca di Satya Forte si focalizza su tre questioni ricorrenti: la natura dei materiali, le loro tensioni – fisiche e culturali – in rapporto al contesto, la caducità delle cose terrene (Maurizio Coccia, 2023). E’ plausibile dunque affermare che il lavoro di questa giovanissima artista nasce da pulsioni interiori, forze uguali e contrarie, tecnicismi e manualità estrema, ossessione del dato parzialmente lenticolare e restituzione di un tutto che ne regola i fili.
Satya Forte torna ad esporre a Pereto, dopo il lavoro Se non il vento, presentato a Ultramoderne, straperetana 2023, in cui l’elemento effimero della polvere raccolta nelle stanze di un palazzo abbandonato diventava fulcro dell’opera.
Le sale di Palazzo Maccafani verranno abitate da alcune opere site-specific, realizzate nell’arco degli ultimi mesi, appositamente per il grande salone d’ingresso e per la sala degli affreschi mentre negli spazi sotterranei verranno presentati due lavori precedentemente realizzati tra cui un inedito.
Fiorire, Testo di Maurizio Coccia
I.
Iniziare un testo introduttivo a una mostra d’arte contemporanea parlando di artigianato può apparire inusuale. Ma è questo lo spunto che, a mio avviso, illustra adeguatamente lo spirito che presiede la pratica – e la poetica – di Satya Forte. Purché il termine sia interpretato correttamente, alla luce della sua nobile radice, storica e culturale.
Come tutti i sistemi complessi, l’artigianato si fonda su alcuni codici piuttosto definiti, di ordine normativo, tecnico, estetico. Poi ne esistono altri, meno ovvi, legati alle pratiche sociali, come la ritualità e l’identità comunitaria.
Per quanto riguarda il primo gruppo, la condizione artigiana è una sintesi di destrezza e saggezza. Essa dipende sia dalla padronanza intellettuale delle regole, sia dalla perizia tecnica nel conseguire il risultato progettuale. È chiaro che la piacevolezza esteriore ha un ruolo importante, ma non discriminante.
Nella Grecia antica e in buona parte delle culture extra-europee, infatti, il concetto di contemplazione estetica fine a se stessa, semplicemente, non esisteva. Sculture, pitture, maschere, vasi, eccetera, erano saldamente incardinati in un contesto funzionale. In buona sostanza, non esisteva una distinzione tra ciò che noi, oggi, chiamiamo artigianato e l’Arte, intesa quale ideale di originalità, indipendenza, genio. Ciò vale anche a proposito degli attributi simbolici e rituali degli oggetti.
In definitiva, questo significa che la bellezza derivava dall’unione di utilità (pratica e/o morale) ed esecuzione appropriata. In altri termini, la qualità dei manufatti “artistici” – ma anche della poesia, della musica, delle attività di governo e della calzoleria – derivava da tre fattori determinanti: le proporzioni, l’ordine e, soprattutto, l’adeguatezza all’uso cui erano destinati.
II.
Con l’ultima affermazione torniamo alla mostra di Satya Forte, chiamata per la prima volta ad articolare la sua ricerca in maniera ampia e circostanziata a Palazzo Maccafani. L’artista risponde con un repertorio accuratamente selezionato di opere la cui singolarità – e bellezza – echeggiano i principi di cui abbiamo parlato poco sopra.
Intanto la sovrana attenzione verso il dettaglio significativo, che è espediente tecnico sublimato nell’evocazione carezzevole delle strutture. Poi la precisione miniaturistica nella realizzazione: composizione delle masse, assemblaggio delle parti, coordinamento luce/ombra, abbinamento cromatico. Infine la rigorosa appropriatezza della forma all’idea e al sentimento originari.
Sono valori, questi, che testimoniano un lato preminente del suo temperamento: la serietà. Non sto parlando della sua personalità, ma del suo rapporto con l’arte: esclusivo e totalizzante ai limiti dell’identificazione.
Questa impronta “esistenziale” credo caratterizzi la mostra, sul piano visivo e su quello dei contenuti. Vediamo. I lavori, di primo acchito, sono accomunati da una sorta di “astrazione apollinea”. Si tratta di un sentimento di rigore euforico, o di austerità armoniosa e cantabile, diffuso sia nelle installazioni sia nelle opere a parete.
L’allestimento, invece, si dispone in un percorso circolare di concatenazioni percettive. Dal piano alto fino al sotterraneo e poi, ancora, a ritroso, si dipana la filigrana di un racconto limpido e solare, che si modifica a ogni passaggio e introduce a quello seguente.
Ogni similitudine morfologia, ogni accordo di colore, ogni allusione emotiva, pare rispondere a un imperativo progettuale così coerente da sembrare spontaneo, naturale, interiorizzato.
Andiamo avanti. Essendo la mostra un itinerario anulare, non può esserci un inizio. La lettura che propongo, però, dipende da una mera questione di gusto personale. La via discendente è una mia comodità interpretativa; nessuna gerarchia o ricostruzione di sviluppi narrativi.
Cominciamo con Idea di paesaggio. L’opera, nella sua trasparenza illusoria, è il tracciato di una sismografia sentimentale in sordina, atmosferica, tremula e mimetica, accolta in una sala fortemente connotata. L’assetto cartesiano dei filamenti, nonostante l’interpolazione di piombini e capelli dell’artista, si conferma nella sua orditura reticolare e fa da ponte alla stanza adiacente. Qui si trova I tuoi occhi i tuoi occhi i tuoi occhi, una sorta di polittico delicato e crudele allo stesso tempo. La sovrapposizione di carte millimetrate è il talamo dell’unione impropria tra organico e inorganico, tra petali di tulipano e lame metalliche. Forse parla d’amore, come la poesia di Nazim Hikmet che l’ha inspirata. Forse di libertà o smarrimento personale. Poco importa. Ciò che davvero sembra dirci riguarda la minaccia latente che, sempre, aleggia nei rapporti umani e li condiziona.
I petali, esposti in accoppiamento simbiotico con le pagine di alcuni libri evidentemente cari all’artista, sono il collegamento con l’altra opera, Accadde verità. L’atto – immagino sofferto – di separazione dal testo originario, ha un doppio valore simbolico. Primo perché la lama degli occhi (vedi sopra) campiona parole esemplari estrapolandole dal corpo del volume. Le stesse parole, poi, nell’adattamento artistico passano dal registro semantico a quello segnico e, infine, assumono la funzione di sostegno e fondazione.
È la parola dantesca, costitutiva della lingua italiana, il fulcro di Muti di luce. Satya Forte, qui, raggiunge un picco di titanica visionarietà piuttosto raro, in artisti della sua generazione. Prima miniaturizza tutto l’Inferno e poi, accanitamente, lo stampa su fiammiferi in legno. Il duplice richiamo al fuoco – quello infernale e quello, più domestico, dei fiammiferi – è anche un rimando alla luce della conoscenza – cui allude anche il basamento-faro – che illumina il tortuoso cammino della civiltà e che dovrebbe confortarci nella nostra inappellabile solitudine.
La luce, insieme al sentimento del tempo, permea anche l’ultima opera in mostra, l’installazione Non v’è luce nella ferita. Il riflesso metallico baluginante dalle profondità cavernose del palazzo, ne fa lancia e saetta, freccia, bussola, orologio. È un’opera ambiziosa, di grandi dimensioni e seducente difficoltà occultata dall’apparente disinvoltura del risultato formale, d’indubbio fascino. Questo mi ricorda la nota affermazione di Baldassarre Castiglione: “… usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica…”. Qui, infatti, l’equilibrio delle tensioni meccaniche e dei pesi è celato sotto la perfezione metallurgica, che trasforma l’opera in uno scintillante vettore di energia la cui intrinseca ferocia pare addomesticata, ma invece è solo nascosta.
III.
È tempo di tornare sull’aggettivo “apollineo” per tentare qualche conclusione. Se sembra indirizzare la mostra, ciò non significa che ne detenga il monopolio. L’insieme delle opere, infatti, emana freschezza, giovinezza, energia, armonia e luminosità, ma come abbiamo visto la costellazione che le accoglie è molto più chiaroscurale.
Non c’è bisogno di scomodare Nietzsche e le implicazioni tra apollineo e dionisiaco. Preferisco una frase di Teju Cole, che ho letto recentemente e credo condensi con perturbante franchezza il mio pensiero: “In quel momento il mondo era bello, pieno di una felicità semplice, non meno vasta e meno profonda del dolore.”
Cosa voglio dire? Facciamo un esempio. Tutte le opere di Satya Forte hanno un sapore autobiografico. Eppure non v’è traccia di intimismo o, peggio, di compiacimento narcisistico. Paesaggi elegiaci (vissuti, sognati, costruiti?) macerati in sottili trame di materiali sintetici. Solitudini ancestrali e paure giovanili agglutinate in scintillanti forme aerodinamiche. Metafisica e visceralità che si fondono in un capello bianco. È tutto bello, semplicemente bello, e doloroso.
Ecco. Perché?
Forse che misurando questa contraddizione aurorale nell’ispirazione delle sue opere, la maturazione artistica di Satya Forte si sta perfezionando nella conciliazione degli opposti?
Vedremo.
Certo è che la dicotomia, la polarizzazione di soggetti contrari, oltre che formula ricorrente nella poesia amorosa, investe integralmente la condizione umana. È lo specchio sempre incrinato della negoziazione quotidiana, inderogabile, tra speranza e consapevolezza, progetto e senso della finitezza.
Eppure, elaborare la sofferenza e tradurre il lutto in nuove possibilità di esistenza, è qualcosa di profondamente radicato nel comportamento umano. Significa creare narrazioni, raccontare in parole, immagini o musica. L’arte rende manifesta – e forse accettabile – la brevità ingannevole del nostro esilio terrestre.
Nell’arte non c’è redenzione né salvezza, ma rigenerazione.
Anche se l’inverno arriverà presto, e la neve coprirà delicatamente i bulbi, qualcuno ci sarà pur sempre, in attesa della prossima fioritura, per raccontarla.