September 27, 2019
Dal 28 settembre al 07 dicembre 2019
KAPPA-NöUN
San Lazzaro di Savena, Via Imelde Lambertini, 5, (BO)
Orario di apertura: su appuntamento
Vernissage: 28 settembre 2019, ore 17.30
A cura di Davide Ferri

 

Ho conosciuto Claudio Verna alcuni anni fa, doveva essere il 2012, attraverso Marco Ghigi. “Sono un amico di Marco” gli dissi all’inizio della telefonata in cui gli chiedevo di poterlo incontrare per la prima volta. Due giorni dopo ero da lui, nello studio di Valle Aurelia. Da allora io e Claudio non abbiamo avuto tante occasioni di lavorare assieme (se si esclude la sua prima personale alla galleria Monitor, nel 2013) ma ho continuato a visitare il suo studio con una frequenza abbastanza regolare. In studio i nuovi dipinti sono appoggiati lungo la parete più grande, quella in cui l’artista lavora. Claudio non mi chiede mai di guardarli con un’attenzione esclusiva, ma preferisce farmi accomodare su una delle due poltrone per chiacchierare a lungo, divagando in presenza dei suoi quadri, che stanno di fronte a noi come partiture capaci di reagire al flusso delle parole. Per me, ogni volta, visitare lo studio di Claudio è una pratica rigenerante e nutriente. Anche i dipinti di Verna li ho incontrati per la prima volta a casa di Marco. Quando Marco mi mostrava la sua collezione, accompagnando la visione delle opere con degli aneddoti, con delle piccole storie, di fronte ai quadri di Verna smetteva per alcuni secondi di parlare e lo spazio silenzioso si apriva a qualcosa che mi viene da chiamare “libidine del colore”. È una sensazione molto importante per me, che non puoi tradurre in parole se non accettando l’inadeguatezza delle parole che provano a definire un colore il cui fascino risiede nella capacità di occupare una posizione intermedia tra l’assoluto e il contingente. Questa libidine costituisce il presupposto di un rapporto esclusivo, prolungato, tra l’osservatore e i quadri di Verna. I colori dei dipinti di Verna hanno dunque una specie di imprendibilità, di instabilità perpetua, anche quando tendono al monocromo, o al “quasi-monocromo”, e non si lasciano contenere in una singola immagine, in una singola figura (mi riferisco a una figura astratta, per usare un’espressione di Filiberto Menna molto in voga negli anni Settanta). I colori di Verna sono percorsi da una specie di vibrazione, di iridescenza, da un movimento analogo a quello di certe campiture custodite all’interno delle figure volatili dei quadri di Osvaldo Licini, un artista—incontrato da Claudio una sola volta in una memorabile serata di molti anni fa—da cui Verna sembra anche aver appreso il senso di una agilità del colore, un altro degli aspetti fondamentali della sua poetica. L’agilità di cui parlo ha a che fare con il modo di articolare la successione tra i piani dell’immagine, tra gli strati di colore, con colori che da sotto sembrano emergere in superficie, dagli strati anteriori, squarciando o punteggiando la campitura dominante, contaminandone l’integrità con un’infinità di sottotoni che la fanno vibrare per contrasto, o per via di accrescimenti e dissolvenze. E con colori capaci di esplorare la superficie in tutte le sue parti, rilanciandosi energeticamente al centro così come ai margini, organizzandosi in bande e linee che seguono (o contrastano) il perimetro e la forma del dipinto, sospinti da una forza che li fa lievitare, o arrampicare lungo i bordi. Questa mostra, la prima nello spazio che Marco Ghigi inaugura a San Lazzaro di Savena, riunisce alcuni quadri storici di Verna e altri più recenti, e si intitola Cromoracconto—come molte opere realizzate a cavallo tra anni Sessanta e Settanta che alludevano alla possibilità di una narrazione. Per Verna “racconto” può voler dire molte cose, non certo il dispiegarsi nel dipinto di una storia, piuttosto l’idea che i tratti e le pennellate si dispongano sulla superficie in base ad un’articolazione che ha a che fare col tempo oltre che con lo spazio. E, forse, con il vago riconoscimento di una figura—un paesaggio o una natura morta, o qualcosa di più evanescente, come nel caso de La tenda di Gengis Khan, uno dei dipinti esposti in questa mostra. Fare riferimento al rapporto con la figura è, parlando della pittura di Verna, rischioso e fuorviante. Perché il suo lavoro è, fin dagli esordi, rigorosamente astratto (non c’è neppure un periodo figurativo giovanile a cui appellarsi—solo qualche ritratto, pochi a dir la verità, realizzati come esercizio di velocità). Eppure questo rischio non mi trattiene dal tirare in ballo, di fronte a certi suoi quadri, un elemento del reale: le nuvole. In un suo libro molto noto, Teoria della nuvola, lo storico dell’arte francese Hubert Damisch ricostruisce una storia della pittura a partire dalla rappresentazione delle nuvole, un problema per i pittori fin dal Rinascimento perché la nuvola, per via della sua imprendibilità, non può essere collocata e rappresentata con sicurezza matematica all’interno della griglia prospettica. Germinale, un altro dei quadri esposti in mostra, ha a che fare con questo rapporto—tra una griglia e l’imprendibilità di un colore/nuvola—con un movimento del colore, ora più denso ora più sfiatato, che sfugge (e contamina) la rigidità della griglia. In mostra, dicevo, ci sono alcuni dipinti degli anni Settanta, appartenenti al periodo analitico dell’artista—al centro della sua indagine c’era, in quegli anni, il delicato rapporto, equilibrio o contrasto, tra il progetto, traducibile in quadrettature, griglie, squadrature, tratteggi perimetrali, croci e via dicendo, e l’esperienza, il processo, l’imprevedibilità del colore—e alcuni quadri realizzati di recente che rimettono in gioco questo rapporto in forma più lirica e abbandonata. Il rapporto con la Pittura Analitica costituisce per il Verna di oggi un problema. La Pittura Analitica viene celebrata, da qualche anno a questa parte, con molte mostre e pubblicazioni, perché è stato l’ultimo grande momento della storia dell’astrazione italiana e internazionale, e perché, nel nostro Paese, è stata oscurata, compressa, da una parte e dall’altra, dall’Arte Povera e, più tardi, dalla Transavanguardia. Claudio guarda con amorevole distacco a queste celebrazioni e nei suoi racconti di quegli anni ammorbidisce ogni riferimento a un gruppo compatto e teoricamente coeso: sembrano contare di più, per far comprendere gli umori e le atmosfere di quel periodo, le influenze accidentali, certe scoperte che arrivavano da lontano (Frank Stella, Ad Reinhardt…) e non si sa più bene come (quasi nessuno viaggiava, e i canali d’informazione erano molto più fragili), e le predilezioni che non venivano tradotte in programmi o manifesti. Nei racconti, inoltre, Claudio afferma anche l’esistenza di un altro Verna, di un Verna che sta attorno/accanto a quello della Pittura Analitica, che ha vissuto negli interstizi e nelle svolte. La mostra Cromoracconto, pur in forma di accenno, ripercorre il filo di questi passaggi e movimenti. Cromoracconto si sviluppa prevalentemente su una grande parete, attraverso un movimento del colore che percorre come un filo tutti i quadri esposti (se guardo la parete questo racconto mi sembra articolarsi nel bianco, nell’arancione, nel blu, poi di nuovo nel bianco e nell’arancione, per proseguire sulle altre pareti con altri blu, bianchi, gialli…). Tra le opere in mostra, inoltre, solo tre appartengono a Marco; le altre ad alcuni amici di Marco che come lui hanno collezionato, negli anni, i dipinti di Verna. Cromoracconto celebra idealmente una trama di amicizie e passioni comuni, che si dispiegano anche attorno al lavoro di Verna. —Davide Ferri