We Don’t Like Your House Either!

A cura di Francesco Urbano Ragazzi

25 settembre – 20 novembre 2020

Artisti: Tomaso De Luca, Patrick Angus, Gerry Bibby & Henrik Olesen, Gina Folly, Joanna Piotrowska, A.L. Steiner, Stan VanDerBeek

We Don’t Like Your House Either! Questa esclamazione riapre la stagione espositiva della galleria Monitor a Roma, dando il titolo a un progetto inedito disegnato da Tomaso De Luca e a cura del duo Francesco Urbano Ragazzi. Partecipano Patrick Angus*, Gerry Bibby, Gina Folly, Henrik Olesen, Joanna Piotrowska, A.L. Steiner, Stan VanDerBeek.
La mostra inaugura il 25 Settembre 2020 presso gli spazi della galleria a Roma e introduce l’apertura della mostra personale di Tomaso De Luca il giorno successivo nella sede della galleria a Pereto, in attesa della partecipazione dell’artista al MAXXI BVLGARI Prize 2020.
We Don’t Like Your House Either è un percorso che, a partire dal dialogo dell’artista con i curatori, si sviluppa sotto il segno dell’alleanza e della collaborazione.
Più che i singoli autori, in mostra si dipana un discorso che attraversa i generi e le generazioni, e che riguarda la risignificazione politica dello spazio abitativo. We Don’t Like Your House Either sembra parlarci dell’esperienza di confinamento domestico che ci ha accomunati tutti durante la recente pandemia, ma dire questo sarebbe riduttivo. Il confinamento tocca da sempre, in maniera più ravvicinata e tragica, tutti coloro che non possono riconoscersi – per esclusione, per scelta, o per entrambe – dentro i paradigmi della vita agiata. Gli svantaggiati, gli esclusi, gli oppressi, i malati, i migranti, gli esuli, gli outsider, i poeti, gli artisti. We Don’t Like Your House Either è il loro moto d’orgoglio.
Due sono le opere che hanno ispirato questo inno corale. La prima è Site di Stan VanDerBeek (1927-1984), un film su tre canali che documenta e moltiplica l’omonima performance che Robert Morris tenne presso il Surplus Dance Theater di New York nel 1964. Morris ha il volto coperto da una maschera che ne appiattisce i tratti somatici, come una pittura: è una maschera disegnata per l’occasione da Jasper Johns. L’artista, mascherato, attraversa l’ampio spazio scenico spostando e piegando dei pannelli di compensato. Poco più grandi della misura umana, le tavole sono capaci di contenere un corpo come grandi tele o di coprirlo come quinte teatrali. In questo gioco di piani, viene improvvisamente svelata un’icona: è Carolee Schneemann, nuda, nei panni dell’Olympia di Edouard Manet.
Manet, Johns, Schneemann, Morris, VanDerBeek: sono tutti in scena e non se la contendono. Solidi e solidali, si affidano l’uno all’altro in una visione più ampia del mondo che spazia coraggiosa dalla pittura alla performance, dal teatro all’installazione, dall’architettura al cinema espanso, dall’originale alla riproduzione.
La seconda opera è quella di Patrick Angus (1953–1992). Si tratta di un vero e proprio corpus di disegni e acquerelli recentemente scoperti nella città di Fort Smith, Arkansas, a casa della madre dell’artista. Ora riportate alla dimensione pubblica, le opere in questione segnano l’inizio della produzione dell’artista americano, prima che questi diventasse il Toulouse-Lautrec della scena gay newyorkese. Non ci sono quindi i club, le sale cinematografiche e gli altri luoghi di ritrovo della comunità che Angus dipinse con estremo vitalismo mentre il virus dell’HIV imperversava tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ’90, ma piuttosto paesaggi intimi, solitari, a volte astratti, in cui il desiderio e la densità metropolitana vengono sublimati e diluiti.

La selezione in mostra accentua l’intensità di questa carica inespressa attraverso l’intervento di Tomaso De Luca, il quale ricompone i disegni di Angus* all’interno di una serie di strutture trasparenti che intervallano lo spazio della galleria per compenetrarsi in stratificati dispositivi di visione. In questo gioco di piani sfalsati ogni opera esibita esce dall’isolamento della frontalità per convivere in inedite associazioni. De Luca piega così il linguaggio dell’architettura a quello dell’arte, proprio come nella serie Gewöhnen 189; 10; 68; 20, che come contrappunto plastico viene inserita all’interno delle sale. Oggetti reali di arredamento vengono trasformati nelle maquette di 4 edifici immaginari dentro cui l’artista ridisegna le case in cui ha effettivamente vissuto. Questi modelli, così come lo stesso display espositivo, compongono un vero e proprio complesso scultoreo e tratteggiano così un’edilizia affettiva che accoglie la precarietà della vita e ne fa anzi il proprio elemento costitutivo. Gli altri artisti partecipano a questo cross-over raccogliendo l’eredità delle opere storiche che ne fanno da sfondo. A partire da esse, delineano una genealogia trasversale dello spazio dell’arte. Uno spazio dall’identità non conforme, espanso come il cinema di Stan VanDerBeek e queer come i soggetti della pittura di Patrick Angus. Uno spazio in cui le regole dell’ufficio e della casa vengono disattese, perché i bisogni e i desideri della vita possano essere rappresentati senza soluzione di continuità tra pubblico e privato.
Oscilla tra questi due poli Magic Box di Gina Folly (Zurigo, 1983). Al primo sguardo ricorderà una cassetta delle lettere trasparente o uno di quei contenitori porta-documenti dal design essenziale. Si tratta in realtà di un artificioso dispenser di cibo per le scimmie allo zoo, intarsiato da piccoli pertugi regolari fatti per mettere alla prova, e in mostra, l’ingegno prensile dell’animale. La riproduzione in policarbonato trasparente ad opera dall’artista astrae in una lieve tonalità azzurra la crudeltà dell’oggetto fino a renderla misteriosa e del tutto impenetrabile. Una scatola magica per uno zoo umano.
La scultura torna poi unità abitativa, come le capanne che i bambini costruiscono per definire il loro ambiente domestico. Joanna Piotrowska (Varsavia, 1985) cerca proprio questa dimensione primordiale nella serie fotografica Frantic. L’artista polacca si introduce in appartamenti di grandi centri urbani e chiede ai loro abitanti di posare all’interno di minime architetture improvvisate. La precaria urbanistica dell’intimità che si crea non è soltanto il ritratto monadico di singolarità rinchiuse in un microcosmo protetto, ma anche un palcoscenico dove giocare a rappresentare il mondo.
Di tanti altri mondi ancora ci parlano le fotografie di A.L. Steiner (Miami, 1967): artista, curatrice, attivista e componente della storica band femminista electro-clash Chicks on Speed. È proprio la sua ricca comunità di riferimento che Steiner ritrae: una comunità in continua trasformazione, e che anzi lotta per la trasformazione e per il superamento della normatività. Le fotografie di A.L. Steiner, che spesso si compongono in grandi collage a muro e installazioni, vengono isolate qui in due scatti intimi che rappresentano uno spazio vitale minimo: un safe space in cui l’espressione individuale si rigenera per poter tornare, prima o poi, collettiva.
Spazio scenico e domestico arrivano al collasso in Grosses Kaugummi di Gerry Bibby (Melbourne, 1977) & Henrik Olesen (Esbjerg, 1967), un grande e denso monocromo nero che presenta tre piccole escrescenze biancastre. Sono chewing gum applicati ad un tappeto impregnato a tal punto di pittura da diventare rigido come una porzione d’asfalto. L’opera di Bibby e Olesen porta alle estreme conseguenze la tensione tra arredamento e arte, tra la strada e la casa, tra il camp del tappeto e il minimalismo del quadro nero. La gomma masticata è la firma degli artisti, fregio e sfregio a una casa che non ci piace nemmeno.
La mostra prosegue nella sede della galleria a Pereto. Tomaso De Luca riversa nella dimora di campagna il proprio universo progettuale, rigettando aspramente le forme della gentrificazione almeno quanto quelle di un isolamento privilegiato.
Il bancone che accoglie e respinge lo spettatore all’ingresso dello spazio espositivo, è la prima dichiarazione di intenti. Su di esso, una scatola contiene un centinaio di foto erotiche amatoriali di uomini che posano privatamente dinnanzi al proprio partner. Sono alcuni abitanti di Castro Market, storico quartiere gay di San Francisco, ritratti prima che l’avvento dell’AIDS negli anni ’80 provocasse la loro espulsione tramite richieste di sfratto immediato per fare posto a inquilini più sani e abbienti. Le foto in mostra sono solo una minima parte di quelle che Autoerotica, un vecchio sexy-shop della città, recuperò tra gli sgomberi e gli svuotamenti degli immobili, e che tutt’ora sono in vendita nel negozio a un dollaro l’una. La selezione in mostra è un memoriale non tanto di quei lampi di vita salvati ma, per compensazione, di tutte quelle vite che la legge del mercato ha tacitamente colpito.
Nelle sale successive della galleria il monumento si articola costellandosi di disegni, oggetti e maquette dove la grammatica dell’architettura viene piegata al linguaggio poetico. De Luca ribalta la precarietà dell’abitare trasformando soppalchi sbilenchi, appendiabiti monchi e facciate di Fachwerkhaus tedesche in prodigiose sculture che sfidano la gravità. Ancora una volta, al centro dell’esibizione non ci sono le figure umane o le loro ferite, quanto gli spazi vibranti che i loro corpi sono in grado di disegnare attorno a sé. Sono anti-corpi contro un certo design funzionale e preventivo, che crea bisogni e paure, che trasferisce sulle cose un senso di protezione che può tramutarsi in attacco. La testata di una sedia, la gamba di un tavolo e l’impugnatura di un fucile possono essere tutti allo stesso modo oggetti da combattimento. L’artista ce li mostra in una carrellata di 50 diapositive, Sturmgegenstande, che a ritmo regolare proietta le componenti tecniche di questi oggetti, rivelandoci un’inquietante parentela tra spazio domestico e rurale, tecnica e fetish, confort e violenza.

Francesco Urbano Ragazzi


ENGLISH VERSION

Curated by Francesco Urbano Ragazzi

September 25th – November 20th 2020

Artists: Tomaso De Luca, Patrick Angus, Gerry Bibby & Henrik Olesen, Gina Folly, Joanna Piotrowska, A.L. Steiner, Stan VanDerBeek

We Don’t Like Your House Either! This exclamation kicks off the exhibition season at Monitor gallery in Rome, providing the title to a new project designed by Tomaso De Luca and curated by the duo Francesco Urbano Ragazzi. Featured artists include Patrick Angus, Gerry Bibby, Gina Folly, Henrik Olesen, Joanna Piotrowska, A.L. Steiner, and Stan VanDerBeek.
The exhibition will open on 25 September 2020 at Monitor’s Rome space, a prelude to both Tomaso De Luca’s solo show at the gallery’s Pereto branch opening the following day, as well as to his participation in the MAXXI BVLGARI Prize 2020. Stemming from a dialogue between the artist and the curators, We Don’t Like Your House Either! brings together works that are the result of synergies and collaborations.
Rather than focussing on individual artists, the show unravels debates that cross gender and generations, looking at the political resignification of living spaces. We Don’t Like Your House Either! appears to touch upon our shared experiences of the domestic confinement which has united us all during the recent pandemic, but saying this would be reductive. Confinement has invariably always concerned those who, in a more immediate and tragic way, cannot fit into the paradigms of a comfortable life – by exclusion, choice or both. The disadvantaged, the sick, the migrants, the exiled, the non-conforming, the poets, the artists. We Don’t Like Your House Either! is their expression of pride.
Two works have inspired this choir of voices. The first is Site by Stan VanDerBeek (1927-1984), a three-channel movie which documents and multiplies the eponymous performance Robert Morris staged at the Surplus Dance Theatre in New York, in 1964. Morris’s face is covered by a mask designed by Jasper Johns, which, like a painting, flattens his features. The masked artist walks across a large stage, moving and bending sheets of plywood. Slightly larger than a human figure, the sheets can both contain the body as large canvases or conceal it like theatre curtains. In this game of planes, an iconic figure is suddenly revealed: Carolee Schneemann, nude, representing Edouard Manet’s Olympia. Manet, Johns, Schneemann, Morris, and VanDerBeek: all on stage, no one upstaged. Solid and supportive, they entrust each other with a wider vision of the world, which bravely ranges from painting to performance, from theatre to installation, from architecture to expanded cinema, from the original to a reproduction.
The second work is by Patrick Angus (1953–1992). A veritable trove of drawings and watercolours was recently discovered in the home of the artist’s mother in Fort Smith, Arkansas. Now seen in public, the works reveal the beginnings of the American artist, before he was known as the Toulouse-Lautrec of the New York gay scene. There are no clubs, cinemas, or other gathering spots of the queer community which Angus depicted with extreme vitalism while it was ravaged by HIV during the end of the 1980s and early 1990s. Rather, there are intimate, solitary, at times abstract landscapes, in which desire and urban density are sublimated and diluted.
The selected works highlight the intensity of this unexpressed charge with Tomaso De Luca’s intervention. De Luca has rearranged Angus’s drawings within a series of transparent structures which punctuate the spaces of the gallery so as to penetrate layered viewings. In this game of staggered planes, each exhibited works leaves behind the isolation of frontality to live together in new associations. De Luca thus bends the language of architecture towards that of art, like in his series Gewöhnen 189; 10; 68; 20, which is inserted inside the rooms as a plastic counterpoint. Real furnishings are transformed into the models of four imaginary buildings where the artist has redesigned the homes in which he has actually lived. These models, just as the exhibited display, compose a veritable sculptural group which thus outlines an affective housing which embraces the precariousness of life, making it its key building block.
The other featured artists participate in this crossover by touching on the legacy of the historic works which act as the show’s backdrop. Using them as a starting point, they outline a transversal genealogy of the space of art. A space with a non-conforming identity, which is expanded like the cinema of Stan VanDerBeek and queer like the subjects of Angus’s paintings. A space in which office and house rules are disregarded, so that the needs and the desires of life can be represented without breaks between public and private dimensions.
Gina Folly’s (Zurich, 1983) Magic Box oscillates between these two poles. At first glance, it will recall a transparent mailbox or one of those minimalist filing folders. In fact, it is a contrived food dispenser for monkeys in a zoo, with small regular holes puncturing the surface so as to challenge – and display – the animal’s prehensile ability. Its reproduction in transparent polycarbonate abstracts the cruelty of the object in a light blue hue, rendering it mysterious and impenetrable. A magic box for a human zoo.
Sculpture then becomes a housing unit, like the dens children build to define their domestic space. Joanna Piotrowska (Warsaw, 1985) seeks for precisely this primordial dimension in her photographic series Frantic. The Polish artist introduces herself into the apartments of big urban centres and asks its inhabitants to pose inside improvised structures. The precarious urbanism of intimacy which is created is not only a monadic portrait of singularity enclosed in a protected microcosm, but also a stage on which to playact representing the world.
The photographs of A.L. Steiner (Miami, 1967) speak to us of yet more worlds. The artist, curator, activist and member of the cult feminist electroclash band Chicks on Speed, Steiner depicts the community she is part of. A community in constant transformation – one which, in fact, fights for transformation and overcoming normativity. Steiner’s photographs, often composed of great wall collages and installations, are isolated into two intimate shots which represent a vital minimal space: a safe space in which individual expression is regenerated to become – sooner or later – once more collective.
Stage and domestic space collide in Gerry Bibby (Melbourne, 1977) & Henrik Olesen’s (Esbjerg, 1967) Grosses Kaugummi, a great and dense black monochrome which features three small, whitish lumps. Upon closer inspection, these are revealed to be chewing gums applied to a carpet so impregnated with black paint so as to become rigid like asphalt. Bibby and Olesen’s works brings to their extreme consequences the tension between decor and art, the street and home, between the camp of the carpet and the minimalism of the black square. A chewed gum is the artists’ signature mark, at once frieze and scar of a house we don’t even like.
The exhibition continues in the gallery’s Pereto branch. Tomaso De Luca pours his architectural universe into a country home, bitterly rejecting gentrified forms as much as those of privileged isolation. The counter which greets the visitor at the entrance of the exhibition space is the artist’s first declaration of intent: a box rests on it, holding around a hundred erotic photos of men posing privately in front of their partners. They’re residents of the Castro, San Francisco’s historic gay neighbourhood, depicted before the AIDS crisis of the 1980s hit the community, prompting their expulsion via immediate eviction notices to make way for healthier and more affluent tenants. The photographs in the show are only a small fraction of those which Auto Erotica – an old sex shop in the city – managed to salvage in the clearing and emptying out of flats, and which are still on sale for $1. The selection in the show is a memorial not so much to those flashes of life which have been saved, but rather, as compensation, to all those lives which the laws of the market have tacitly affected.

In the following galleries, the memorial is articulated through a constellation of drawings, objects and models, where the grammar of architecture is bent towards the language of poetry. De Luca overturns the precariousness of living, transforming lopsided mezzanines, damaged coat hangers, and German Fachwerkhaus facades into prodigal sculptures which defy gravity. Once again, human figures or their wounds are not at the heart of the exhibition, but the vibrant spaces their bodies are capable of drawing around themselves. They are anti-bodies for a certain functional and preventative design which creates needs and fears, which can transform a sense of protection of things into an attack. The headboard of a chair, the leg of a table and the grip of a shotgun can all be objects of combat. The artist displays them in Sturmgegenstande, a slide-show of 50 images which rhythmically projects the technical components of these objects, revealing a disturbing relationship between domestic and rural spaces, method and fetish, comfort and violence.

Francesco Urbano Ragazzi